Il contratto d’albergo è un contratto consensuale ad effetti obbligatori, la cui causa è identificabile nella funzione d’ospitalità (nota Si veda Mantucci 226); lo stesso può perfezionarsi verbalmente, con la conferma della disponibilità dell’alloggio da parte dell’albergatore, e ciò, secondo la S.C., a prescindere dall’assegnazione della camera, e dall’effettiva occupazione di quest’ultima da parte del cliente[1].
Nella maggior parte dei casi il contratto è, però, concluso tra persone lontane, mediante lo scambio della proposta e dell’accettazione[2]. La prenotazione compiuta dal “cliente lontano per un periodo futuro” dà luogo alla richiesta di un contratto sottoposto alla condizione sospensiva dell’effettiva disponibilità della stanza, con conseguente obbligo dell’albergatore, ex artt. 1337, 1338, 1358 e 1366 c.c., di comportarsi secondo buona fede, provvedendo a confermare la prenotazione, o, al contrario, a comunicare l’indisponibilità della camera (il tutto, ovviamente, qualora lo stesso abbia margini di tempo sufficienti)[3].
Nell’ipotesi in cui sorgano contestazioni sulle obbligazioni vicendevolmente assunte, occorre avere riguardo alla proposta quale si è delineata nel corso di eventuali trattative, scritte o orali che siano, tenendo ovviamente conto che un’accettazione contenente modifiche o integrazioni si trasforma in una nuova proposta, la quale necessita di un’accettazione da parte dell’originario proponente[4].
Il contratto d’albergo è concluso nel momento in cui il proponente, che indifferentemente può essere il cliente o l’albergatore, viene a conoscenza dell’accettazione dell’altra parte, sia essa espressa, che tacita, ovverosia per comportamento concludente, ad esempio attraverso il versamento di un acconto.
Per effetto dell’intervenuto perfezionamento del contratto la disdetta della prenotazione da parte del cliente integra, secondo la S.C., un’unilaterale sottrazione al vincolo contrattuale[5]. In altre parole, la revoca della prenotazione dopo la conclusione rappresenta un recesso da un contratto già perfetto (nota Si veda Geri 201). La stessa determina l’obbligazione di tenere indenne l’albergatore per la perdita dovuta al non aver utilizzato la camera, o le camere, per il periodo prenotato, e quest’ultima circostanza deve essere necessariamente provata dall’albergatore[6].
Circa l’individuazione dell’esatto momento in cui si conclude il contratto d’albergo è necessario evidenziare come l’esercente di un’impresa alberghiera normalmente si avvalga di varie forme di messaggi pubblicitari, ad esempio via internet: questi rappresentano un’offerta al pubblico, ex art. 1336 c.c., rivolti non solo a potenziali clienti ma anche ad altri utenti del servizio alberghiero[7]. Questi ultimi sono soggetti qualificati, si pensi ai tour operators, alle agenzie di viaggi, e anche ai siti specializzati: tutti operano come mandatari dell’albergatore in ragione proprio dell’offerta al pubblico[8].
Secondo le S.U. della S.C., l’accettazione dell’offerta al pubblico può essere effettuata tramite telefono, come ogni altro contratto a forma libera, se la stessa non è esclusa dall’offerta[9]. Il medesimo principio può essere affermato per un’accettazione formulata tramite mail, e ciò anche se indirizzata dal cliente alle figure dei mandatari, siti specializzati compresi.
Per quanto attiene alla figura del cliente dell’albergo la stessa può non identificarsi con il soggetto che direttamente stipuli il contratto, ben potendo il cliente della camera e dei servizi non essere obbligato ad alcuna controprestazione[10]. Da circa quaranta anni la Cassazione afferma, infatti, che in subiecta materia è perfettamente ammissibile la conclusione di un contratto d’albergo a favore di un terzo[11].
Non vi sono ragioni preclusive alla possibilità che il contratto d’albergo sia a favore di terzi, ma ciò purché lo stipulante ne abbia interesse: quest’ultimo può essere non solo economico o istituzionale, ma anche morale, come accade, ad esempio, qualora un Comune, per ragioni di pubblico interesse, concluda con diversi titolari d’albergo contratti a favore di famiglie di sfrattati[12].
Non bisogna poi dimenticare che nel contratto d’albergo a favore di terzi è solo lo stipulante il titolare delle azioni e dei rimedi contrattuali, nonché dei relativi obblighi, mentre il terzo non è, né diviene, parte contrattuale[13]. Di conseguenza è lo stipulante ad essere obbligato, nei confronti dell’albergatore, sia alla restituzione della camera da parte del terzo, che alla corresponsione della somma dovuta come corrispettivo per il contratto d’albergo dovuto alla data della consegna della camera, compreso, ovviamente, il maggior danno in caso di ritardo, a norma dell’art. 1591 c.c.[14].
È stato osservato in dottrina come la speciale disciplina della responsabilità dell’albergatore si integri nell’articolato sistema delle tecniche di difesa dell’utente consumatore (nota Mantucci 226).
Anche ad avviso della S.C. il contratto d’albergo non si sottrae alla disciplina generale dei contratti del consumatore, e deve essere ricondotto alla nozione ed al regime del contratto del consumatore secondo le definizioni contenute nel Codice del consumo, il quale prevede, in particolare per quanto attiene all’individuazione del Giudice inderogabilmente competente, la competenza territoriale esclusiva del Giudice del luogo in cui l’utente ha la residenza o il domicilio elettivo.
D’altronde l’albergatore, ovverosia colui il quale fornisce l’alloggio ed i servizi accessori, è sempre un professionista, ovverosia una persona giuridica, pubblica o privata, che nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale utilizza il contratto. Non a caso l’art. 1786 c.c. estende la responsabilità dell’albergatore proprio agli altri “imprenditori” indicati nella norma.
Il cliente, invece, che è colui il quale usufruisce delle prestazioni dell’albergo, di norma è un consumatore, una persona che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta.
La prestazione dedotta nel contratto d’albergo.
Malgrado la grande rilevanza sociale ed economica assunta nei tempi moderni dal contratto d’albergo, il nostro ordinamento non lo definisce espressamente, non gli assegna uno specifico nomen juris, e non disciplina in modo organico i diritti e gli obblighi che ne derivano. Le disposizioni che l’ordinamento dedica al contratto d’albergo non consentono, quindi, di considerarlo legalmente tipico (nota Si veda Mantucci 226).
Ad avviso della giurisprudenza di legittimità il contratto d’albergo non può essere considerato un contratto tipico, non trovando alcuna specifica regolamentazione né nella legislazione speciale, né nel codice civile, ove la sezione II, del capo XII, del titolo III, del libro IV, rubricata del deposito in albergo (artt. 1783-1786 c.c.), non disciplina il contratto nella sua complessiva struttura[15], bensì la responsabilità dell’albergatore per le cose a lui consegnate, oppure portate in albergo[16].
Il contratto d’albergo, pur presentando aspetti comuni con diversi contratti tipici, se ne differenzia per le peculiari caratteristiche, e, secondo la Cassazione, deve essere considerato un contratto atipico[17], o misto[18]. L’albergatore si impegna, infatti, a fornire al cliente, dietro un corrispettivo, prestazioni molteplici ed eterogenee, quali la locazione dell’alloggio, la fornitura di servizi, il deposito, senza che la preminenza da riconoscere alla locazione dell’alloggio possa valere a far assumere alle altre prestazioni carattere meramente accessorio sotto il profilo causale[19]. Nel contenuto del contratto d’albergo rientrano, quindi, molteplici prestazioni di dare e di facere dovute dall’albergatore, e di queste alcune sono “fondamentali” quali quelle di fornire l’alloggio ed il vitto, mentre altre sono “accessorie” attinenti ai mezzi ed ai servizi posti a disposizione dei clienti per renderne più confortevole e gradito l’alloggio (nota si veda 479/1976). A richiesta del cliente l’albergatore può, ad esempio, offrire servizi di lavanderia e stiratura, minibar, telefono, garage, centro benessere, massaggi, escursioni fuori dell’albergo, etc..
Già negli anni cinquanta del secolo scorso la Cassazione ha affermato che il contratto d’albergo è per sua natura misto, contratto misto con prestazioni multiple, tutte collegate tra loro, da parte di un solo contraente, ovverosia l’albergatore; tale negozio comporta sempre una locazione, ma si differenzia da quest’ultima perché comprende anche prestazioni di servizi a carattere alberghiero che si aggiungono a quello del godimento della cosa locata, si pensi, ad esempio, ai servizi indispensabili per l’uso della cosa, alle prestazioni personali per le pulizie, etc. (nota 1548/53).
Anche secondo la dottrina siamo in presenza di un contratto atipico, sui generis, innominato, e, soprattutto, complesso, nel quale si verifica l’esigenza di rintracciare le particolari disposizioni regolatrici di ogni singolo istituto, applicabili secondo il criterio della prevalenza.
Andando a vedere più da vicino le c.d. prestazioni “diverse” da quella principale, ovverosia la locazione dell’alloggio, possiamo dire che l’albergatore fornisce, come visto, una serie di altri usuali servizi, di norma accessori, ma assolutamente indispensabili per fruire della stanza in condizioni di normalità[20]. Questi servizi, strumentali rispetto alla locazione, sono diretti a rendere possibile e confortevole il soggiorno secondo i livelli di qualità connessi alla categoria di appartenenza dell’albergo, con le dovute garanzie per le persone, nonché per le cose “portate” dalle stesse[21].
Per quanto attiene alle persone, ad avviso della S.C. l’assunzione dell’obbligazione di somministrare l’alloggio, e, eventualmente, il vitto, non esaurisce l’ambito della prestazione alberghiera, che necessariamente implica anche il dovere accessorio dell’incolumità fisica del cliente, ed in caso di violazione di tale obbligo è configurabile una responsabilità contrattuale dell’albergatore[22]. È stato osservato in dottrina come oggetto del contratto alberghiero non sia tanto l’obbligo di salvaguardia della salute dell’ospite, quanto quello di consentirgli il godimento migliore delle prestazioni dovute, ma, a tal fine, l’incolumità della persona è strettamente strumentale. In tale ipotesi è, comunque, ammissibile il concorso della responsabilità contrattuale e di quella extra contrattuale.
Per quanto, invece, concerne le cose dei clienti, possiamo dire che l’albergatore è tenuto a garantire al cliente la sicurezza contro eventuali furti, o danni, alle “cose portate”, oltre che, ovviamente, a quelle a lui “consegnate”, e ciò attraverso la prestazione accessoria, rispetto a quella principale dell’alloggio, consistente nella messa a disposizione dell’attività di custodia che, secondo la Cassazione, rappresenta l’adempimento di un obbligo “proprio del rapporto”[23]. Non bisogna, infatti, dimenticare che l’albergato non ha la possibilità di assicurare un adeguato sistema di vigilanza e tutela come potrebbe avere nella sua abitazione. Anche la responsabilità per le cose portate in albergo inerisce direttamente al contenuto del contratto d’albergo[24], e si innesta su di esso in quanto ne costituisce un effetto indiretto[25].[26].
Alla luce di quanto finora detto possiamo quindi affermare che al contratto d’albergo si applicano, oltre che le specifiche norme previste dal codice civile (artt. 1783-1786 c.c.), i principi formulati in tema di contratti atipici o misti: il negozio deve, pertanto, essere assoggettato alla disciplina unitaria dell’uno o dell’altro contratto in base alla prevalenza degli elementi che concorrono a costituirla. Secondo la S.C. tale criterio non vale, tuttavia, ad escludere ogni rilevanza giuridica agli elementi del contratto non prevalente, regolati con norme proprie; tutto ciò, ovviamente, qualora queste ultime non siano incompatibili con quelle del contratto prevalente[27].
Secondo la Cassazione la disciplina del contratto atipico, o misto d’albergo deve essere di norma tratta da quella predisposta per la locazione d’opera, dall’appalto e dalla locazione di cose[28].
Può, però, accadere che il cliente, sin dall’origine, abbia pattuito con l’albergatore un prezzo giornaliero nel quale sono ricomprese, indistintamente, sia la prestazione della camera, che quella di altri servizi assunti negozialmente come imprescindibili condizioni dell’alloggio, così da connaturare il rapporto secondo uno schema concettualmente diverso, per la maggiore ampiezza di contenuto, da quello dell’ordinario contratto d’albergo[29]. Nel caso in cui, ad esempio, una società prenoti per i suoi dipendenti, e collaboratori, in un albergo di grandi dimensioni, contratto a favore di terzi, una serie di camere, di sale congressi, e di sale riunioni per svolgere un meeting, con la possibilità che queste ultime siano utilizzate anche da chi non è ospite dell’albergo, non siamo più in presenza di servizi accessori e strumentali rispetto all’alloggio, ma di servizi del tutto autonomi[30].
In tale ipotesi non si è in presenza dell’ordinario contratto d’albergo, visto che, come detto, questo ha per oggetto la prestazione di un servizio tipico, quale l’alloggio ed i consueti ed usuali servizi accessori. Nel caso di specie, invece, i servizi richiesti assumono, per la loro natura ed entità, nonché per il loro costo, un’importanza del tutto prevalente rispetto a quelli del comune contratto d’albergo.
Siamo in presenza di un negozio giuridico a sé stante che, ad avviso della Cassazione, costituisce un appalto di un servizio finalizzato alla prestazione di un risultato diverso dal compimento di una data opera[31]. La disciplina giuridica di quest’ultimo va individuata, in base alla teoria dell’assorbimento che predilige la disciplina dell’elemento prevalente, ovverosia i servizi del centro congressi, proprio in quella predisposta per l’appalto di servizi, tenendo, comunque, sempre conto che anche nel contratto d’albergo la concessione in uso dell’alloggio non è altro che un mezzo per prestare il relativo servizio[32].
La prestazione dedotta in altri contratti d’alloggio.
Esistono una serie di contratti, comunemente chiamati d’alloggio, che prevedono l’erogazione di servizi simili a quelli alberghieri. Ci riferiamo, ad esempio, all’affine contratto misto o atipico di residence, definito anche casa-albergo, nel quale, oltre alla disponibilità dell’alloggio, sono spesso previsti i servizi di ristorazione, di pulizia e di lavanderia[33]. In tale contratto la prestazione di questi ultimi servizi assume una funzione paritetica rispetto a quella del godimento dell’immobile, ed acquista contenuto specifico nel sinallagma contrattuale[34].
Ad avviso della Cassazione l’oggetto di questo particolare contratto risulta, dal punto di vista causale e funzionale, integrato da una serie di servizi, di natura genericamente alberghiera, riconducibili sinallagmaticamente al contrato di somministrazione, o al contratto d’opera: questi, come detto, assumono rilevanza paritetica rispetto alla prestazione dell’alloggio[35]. Il corrispettivo pagato dal cliente costituisce il compenso per un’attività imprenditoriale di tipo alberghiero.
Nel contratto di residence, come nel contratto d’albergo, il godimento dell’immobile ha, di regola, carattere temporaneo e transitorio, e nello stesso rimangono escluse alcune obbligazioni proprie del conduttore del contratto di locazione: ci riferiamo, ad esempio, a quella di provvedere alle piccole riparazioni (art. 1609 c.c.). Inoltre, rispetto alla locazione non viene assicurata al cliente l’esclusività della detenzione dell’immobile, visto che di norma una chiave rimane sempre al concedente per l’esplicazione dei servizi.
Un altro contratto che presenta analogie con quello d’albergo è il contratto di affittacamere. Questa attività, ad avviso della S.C., presenta caratteristiche imprenditoriali analoghe a quelle d’albergo, pensione o locanda, sia pure con dimensioni ridotte[36].
L’esercente l’attività di affittacamere è un vero e proprio imprenditore, che mette a disposizione dei clienti, per periodi di tempo non prolungati, camere ammobiliate provviste delle necessarie somministrazioni ad esse destinate: si pensi alla luce, all’acqua, ed eventualmente al gas. Inoltre, lo stesso offre la prestazione di servizi accessori personali, complemento imprescindibile della camera, che di norma consistono nella dazione e manutenzione della biancheria da letto e da bagno, nel riassetto dei locali, e, eventualmente, nel trattamento di pensione o di mezza pensione. L’esercente l’attività di affittacamere si differenzia dall’albergatore, secondo la Cassazione, per un unico motivo: le minori proporzioni dell’impresa[37].
Sin dalla prima metà del secolo scorso la L. 16 giugno 1939, n. 1111, normativa in parte tutt’oggi vigente, distingueva l’industria di affittacamere da quella alberghiera per il numero limitato delle camere, non superiore a quattro, per un totale di sei letti, che l’esercente poteva, secondo la S.C., concedere in locazione con la prestazione di servizi accessori definiti “di secondaria importanza” rispetto a quelli forniti dagli albergatori[38]. In entrambe le ipotesi erano, comunque, identiche, come d’altronde lo sono oggi, sia la natura che l’essenza dell’attività svolta[39]. Non a caso da quasi quaranta anni la Cassazione afferma che alla locazione di immobile adibito dal conduttore all’esercizio dell’attività di affittacamere si applica la medesima disciplina relativa alle locazioni di immobili destinati ad albergo, pensione o locanda[40].
Analogo principio è stato affermato dalla S.C. in riferimento alla locazione di una camera mobiliata, con annesso bagno, o con uso dello stesso. In questa ipotesi, pur non essendo il contratto concluso da un affittacamere, e ciò per la mancanza dell’organizzazione imprenditoriale del locatore, siamo, comunque, in presenza di un negozio atipico caratterizzato dalla concessione di un’ospitalità onerosa (pensione), con la fornitura di determinati servizi quali il riscaldamento, la luce, l’acqua fredda e calda, e simili[41].
La responsabilità dell’albergatore per la sottrazione delle cose dei clienti prima della miniriforma del contratto d’albergo del 1978.
In riferimento alla sottrazione delle cose dei clienti la responsabilità dell’albergatore, prima del 1978, variava a seconda che le stesse fossero: 1) consegnate in custodia, oppure semplicemente 2) portate in albergo.
Per quanto attiene al danno riportato dal cliente dell’albergo alle “cose consegnate in custodia”, prima delle modifiche apportate dalla L. 10 giugno 1978, n. 316, che ha ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla responsabilità degli albergatori per le cose portate in albergo dai clienti, firmata a Parigi il 17-12-1962, l’art. 1783 del codice civile disponeva che l’obbligazione risarcitoria dell’albergatore fosse regolata dalle norme dettate per l’analoga obbligazione del comune depositario. Questa situazione, come vedremo nel paragrafo successivo, è radicalmente mutata in subiecta materia a seguito delle modifiche apportate nel 1978, ove il legislatore ha per così dire “sganciato” il contratto d’albergo da quello di deposito[42]. Tutto ciò malgrado che la sezione sia ancora intitolata “del deposito in albergo”.
Mentre, però, l’art. 1845 del codice civile del 1865 statuiva che il depositario fosse per questo tipo di danno sempre responsabile, a meno che non avesse provato che la sottrazione o la perdita della cosa depositata erano stati cagionati da “forza maggiore”[43], il codice civile del 1942 ha alleggerito la posizione del depositario, prevedendo nell’art. 1780, I comma, c.c., che quest’ultimo è liberato dall’obbligazione di restituire la cosa dimostrando di aver perso la detenzione della stessa in conseguenza di un “fatto a lui non imputabile”[44]. Per liberarsi da una responsabilità che nel quantum è illimitata, al pari del caso in cui vi sia stato il rifiuto senza giusti motivi di ricevere in custodia le cose (art. 1784, II comma, c.c.)[45], in quel regime era, quindi, “sufficiente” per l’albergatore aver osservato la diligenza nella custodia del buon padre di famiglia seguendo le regole ordinarie del deposito (art. 1768 c.c.)[46], non essendo lo stesso pure tenuto alla prova positiva di quale fosse stato in concreto l’evento produttivo del danno. L’albergatore non era, pertanto, obbligato al risarcimento qualora avesse dimostrato che il danno non era a lui imputabile secondo il criterio della diligenza media[47].
Per quanto, invece, attiene al danno riportato dal cliente dell’albergo alle “cose portate con sé”, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità quest’ultimo, in assenza di una specifica previsione normativa, non aveva, come d’altronde non ha oggi, alcun obbligo di affidare le stesse in custodia all’albergatore, e ciò a prescindere dal loro valore[48]. La responsabilità dell’albergatore, che sorge per il semplice fatto dell’introduzione delle cose nell’albergo indipendentemente da qualsiasi consegna[49], non è in funzione né del valore né della natura delle cose sottratte al cliente, e la misura del risarcimento cui ha diritto quest’ultimo dipende solo da una circostanza: aver o meno affidato le cose in custodia[50]. Quest’ultima dicotomia acquista rilevanza con riferimento alla determinazione della piattaforma risarcitoria che solo nel primo caso è illimitata[51]. Qualora, infatti, il cliente non si avvalga della possibilità di consegnare gli oggetti in custodia potrebbe non ottenere, in caso di sottrazione, l’integrale risarcimento[52]. Ciò in quanto per le cose portate in albergo dal cliente il limite massimo del danno risarcibile, in un primo tempo determinato dall’art. 1784, I comma, c.c., in misura fissa[53], è stato successivamente quantificato, a seguito delle modifiche introdotte dalla L. 15 febbraio 1977, n. 35, in maniera proporzionale al prezzo giornaliero dell’alloggio, con un massimale pari a cento volte quest’ultimo.
A quei tempi la disciplina relativa al danno subito dal cliente in relazione alle cose “portate” in albergo, e non già “consegnate” all’albergatore, era, pertanto, diversa, e, comunque, ben più rigorosa di quella prevista per il depositario[54]. In quel regime fu osservato dalla dottrina come fosse singolare la circostanza che l’albergatore dovesse rispondere con maggior rigore delle cose portate dal cliente: queste di certo non potevano essere da lui direttamente controllate, e, tra l’altro, finivano addirittura per rimanergli ignote. L’albergatore era tenuto a provare, fra le fattispecie espressamente previste dall’art. 1784, III comma, c.c., come causa di esonero dall’obbligazione risarcitoria, quale fosse stata in concreto quella non imputabile dell’evento dannoso, essendo altrimenti tenuto a risarcire, e ciò pure a fronte di un evento ignoto[55].
Per le cose portate vigevano, quindi, regole particolari che comportavano un aggravamento degli obblighi dell’albergatore. In tal caso, infatti, la responsabilità di quest’ultimo aveva un’ampiezza maggiore di quella che avrebbe avuto se a suo esclusivo fondamento si fosse dovuto porre il concetto della colpa (artt. 1768 e 1780 c.c.)[56]. Il rigore della disciplina relativa alle cose portate era compensato da una responsabilità dell’albergatore “limitata”, e ciò anche nel caso in cui l’evento fosse stato a lui imputabile, e non già piena, come, invece, avveniva per le cose consegnate. Ad avviso della dottrina era, infatti, necessario bilanciare le esigenze di sicurezza del cliente con quella di non aggravare la posizione dell’albergatore per cose di cui non aveva il pieno controllo[57].
L’albergatore, in caso di “perdita” o di “deterioramento”, era tenuto a fornire la prova liberatoria del caso fortuito. Il codice civile non comprendeva, quindi, nel fortuito l’ipotesi della “sottrazione” delle cose da parte di un estraneo[58]. Il fatto del terzo, sottrazione della cosa dovuta a furto o a rapina, non rientrava, infatti, nella fattispecie del fortuito, che, come detto, era prevista quale prova liberatoria dall’art. 1784, III comma, c.c., esclusivamente in caso di perdita o di deterioramento della res. Questa soluzione fu ritenuta dalla dottrina pienamente coerente con la stessa nozione di caso fortuito, da ricollegare, cioè, ad un fatto naturale, e non già ad un fatto umano, ed in realtà era fatto naturale soltanto ciò che dipendeva dall’essenza stessa della cosa, o dal suo vizio intrinseco ex art. 1784, III comma, c.c.[59].
Nell’ipotesi di “sottrazione”, dovuta, quindi, a furto o a rapina[60], l’albergatore era esente da responsabilità in un’unica ipotesi: dimostrando il c.d. “fatto del danneggiato”, attraverso la prova che la sottrazione era dipesa da “colpa grave del cliente” (ovvero delle persone che lo avevano visitato o accompagnato)[61]. In caso contrario l’albergatore era sempre responsabile della sottrazione delle cose non consegnate in custodia, e ciò anche per eventi imprevedibili ed inevitabili[62], non potendosi, come detto, neppure avvalere della prova liberatoria del caso fortuito, ammessa esclusivamente per la perdita o il deterioramento (o che queste ultime fossero dovute alla natura o al vizio della res).
A quei tempi la dottrina osservò come un malizioso calcolo utilitaristico avrebbe potuto indurre il cliente a trattenere presso di sé anche quei beni per i quali non sussisteva alcuna difficoltà ad essere consegnati all’albergatore, si pensi ad una somma di denaro, in tal modo diminuendo la possibilità di una custodia sicura[63]. Visto il regime probatorio che esisteva in quel periodo in subiecta materia, il mantenere le cose presso di sé comportava per il cliente una garanzia di risarcimento “qualitativamente più vasta”, anche se limitata nella misura[64].
Da parte sua l’albergato poteva dimostrare che la sottrazione, anziché da una propria colpa grave, fosse dipesa da una colpa grave dell’albergatore (o dei membri della sua famiglia, ovvero dei suoi ausiliari), ottenendo in tal modo un risarcimento delle cose “portate” identico a quello previsto per le cose “consegnate in albergo”, senza, cioè, un limite. In queste condizioni l’albergatore decadeva, infatti, dal beneficio della responsabilità limitata, e doveva risarcire il danno per intero[65]. In assenza della colpa grave del danneggiato, ed in presenza della colpa grave dell’albergatore, non sarebbe, quindi, esistita, circa il quantum debeatur dovuto, alcuna differenza tra le cose portate e quelle consegnate in albergo[66].
La circostanza, poi, che per le cose consegnate l’albergatore rispondesse, come detto, secondo le regole del deposito, e non oltre, visto che il codice civile del 1942 in tale ipotesi non aveva ritenuto di portare gli obblighi dello stesso fino ai margini di incidenza del caso fortuito, della forza maggiore, e del fatto del danneggiato, come, invece, era previsto nel codice civile del 1865, aveva indotto la dottrina ad evidenziare che il danneggiato, lasciando la res in custodia diretta, avrebbe corso l’”alea” della più facile prova liberatoria, imposta all’albergatore-debitore, rispetto a quella più rigorosa prevista dal legislatore, a favore dello stesso, per le cose portate in albergo[67].
La responsabilità dell’albergatore per la sottrazione delle cose dei clienti dopo la miniriforma del contratto d’albergo.
L’attuale art. 1783 c.c., rubricato responsabilità per le cose portate in albergo, nel I comma prevede che gli albergatori sono responsabili di ogni sottrazione (o deterioramento, o distruzione) delle cose “portate” dal cliente, e nel III comma dispone che in tal caso la responsabilità è limitata.
Il successivo art. 1784 c.c., rubricato responsabilità per le cose consegnate (in albergo), nel I comma statuisce che la responsabilità dell’albergatore è illimitata qualora le cose siano state “consegnate” in custodia (oppure, nell’ipotesi in cui vi sia stato il rifiuto, da parte dell’albergatore, di ricevere in custodia le cose portate dal cliente senza una giustificazione giuridicamente apprezzabile)[68].
In maniera innovativa il legislatore della miniriforma ha previsto, sia nel caso di cose portate, che di cose consegnate, la medesima responsabilità, stabilendo che l’albergatore possa liberarsi dalla stessa solo provando uno dei casi previsti tassativamente nell’art. 1785 c.c..
Nel nuovo sistema la distinzione tra le cose consegnate, e quelle non consegnate dal cliente, conserva, quindi, rilevanza unicamente in relazione alla “misura del risarcimento”, illimitata nel primo caso (art. 1784, I comma, c.c.), e limitata nel secondo (art. 1783, III comma, c.c.). In altre parole nell’ipotesi di sottrazione (o di deterioramento, o di distruzione[69]) delle cose del cliente l’albergatore risponde “senza limiti” qualora le stesse siano state consegnate[70], mentre risponde “con limiti” qualora siano state portate. In entrambi i casi l’albergatore non sarà responsabile soltanto nel caso in cui insorga una delle circostanze esonerative di cui all’art. 1785 c.c., ovverosia: 1) la colpa del cliente, o delle persone che l’accompagnano, che sono al suo servizio o che gli rendono visita[71]; 2) la forza maggiore; 3) la natura della cosa[72]. Sarà, comunque, sempre responsabile illimitatamente anche per la sottrazione delle cose portate, e non già consegnate dal cliente, nell’ipotesi in cui la sottrazione sia stata causata da una colpa sua, dei membri della sua famiglia, o dei suoi ausiliari (art. 1785 bis).
In riferimento alle cose “consegnate” all’albergatore è stato osservato in dottrina come il catalogo dei fatti che valgono da esonero della responsabilità, contenuto, come detto, nell’art. 1785 c.c., sia molto più contenuto delle concrete circostanze che possono verificarsi, e che potrebbero determinare il risultato di esonerare l’albergatore dall’obbligo di risarcire il cliente alla stregua del principio generale di cui all’art. 1218 c.c.[73]. In effetti il legislatore della miniriforma ha appesantito la posizione dell’albergatore per le cose consegnate, prevedendo una “speciale responsabilità” più rigorosa di quella fondata sulla colpa, visto che il debitore può liberarsi dall’onere risarcitorio solo se riesca a provare i casi di cui all’art. 1785 c.c., non assumendo, invece, alcuna rilevanza la dimostrazione di avere diligentemente organizzato l’impresa, o, comunque, di aver tenuto un comportamento diligente[74]. Non bisogna, infatti, dimenticare che nel nuovo sistema non esiste più alcun collegamento con il contratto di deposito[75].
La responsabilità dell’albergatore è, quindi, svincolata da ogni sussistenza della colpa, e l’albergatore non può appoggiarsi ad un evento liberatorio diverso da quelli elencati “in via tassativa” dall’art. 1785 c.c.[76]. Per sottrarsi dalla responsabilità non è, infatti, più sufficiente all’albergatore, come avveniva prima del 1978, dimostrare che la sottrazione è dipesa da causa a lui non imputabile (prova negativa), dovendo, invece, lo stesso fornire la prova positiva che l’evento è dipeso da una delle cause menzionate dall’art. 1785 c.c..
In conclusione il cliente, nel promuovere l’azione risarcitoria per le cose consegnate, dovrà dimostrare, oltre all’ammontare del danno subito: 1) l’esistenza di un valido contratto d’albergo; e 2) l’effettiva conclusione di un contratto di deposito[77], mentre l’albergatore avrà l’onere di provare una delle cause esoneranti specificamente indicate nell’art. 1785 c.c.[78].
Venendo ora a parlare della nuova disciplina relativa, invece, alle cose “portate in albergo” dal cliente, che, come osservato in dottrina, costituisce un fatto della vita sociale più ricorrente rispetto a quello previsto dall’art. 1784 c.c.[79], occorre in premessa precisare come il legislatore della miniriforma del 1978 abbia allargato il loro ambito di operatività, fornendone in maniera innovativa una definizione più ampia che tiene oggi conto di un elemento spaziale, l’assunzione della custodia fuori dell’albergo (1783, II comma, n.2, c.c.), e di un elemento temporale, l’assunzione della custodia durante un periodo di tempo ragionevole precedente o successivo a quello in cui il cliente dispone dell’alloggio (1783, II comma, n.3, c.c.)[80]; il tutto, ovviamente, oltre alle “consuete” cose portate, quelle, cioè, che si trovano in albergo durante il tempo nel quale il cliente dispone dell’alloggio (1783, II comma, n.1, c.c.). Soltanto il vincolo genetico che lega la custodia alla formazione, ovvero all’estinzione del contratto, determina la ragionevolezza, di cui al n.3 del II comma dell’art. 1783 c.c., del periodo della vigilanza stessa, e rende rilevante il limite.
L’albergatore non sarà, invece, responsabile per la sottrazione delle cose portate da chi non cliente, e ciò perché non dispone di un alloggio: si pensi, ad esempio, al furto dei bagagli di colui il quale li abbia lasciati nella hall dell’albergo per vedere se la camera fosse o meno di suo gradimento, riservandosi, quindi, di concludere il contratto in un momento successivo[81].
Andando a vedere più da vicino le fattispecie contenute nei nn. 2 e 3 del II comma dell’art. 1783 c.c., ad avviso della dottrina non rientrerebbero nella disciplina delle cose portate durante un periodo di tempo ragionevole successivo a quello in cui il cliente dispone dell’alloggio (n.3) le cose “dimenticate” dopo la sua partenza[82].
Nel nuovo sistema il legislatore ha poi previsto che l’albergatore “assume la custodia” delle cose portate dal cliente fuori dell’albergo, oppure dentro (ma anche fuori) durante un periodo di tempo ragionevole precedente o successivo a quello in cui lo stesso ha avuto a disposizione l’alloggio (nn. 2 e 3 dell’art. 1783, II comma, c.c.).
Nell’intento di delimitare con esattezza il tempo ed il luogo rispetto ai quali il danno alle cose del cliente fa scattare la responsabilità dell’albergatore, secondo una parte della dottrina l’art. 1783, nn. 2 e 3, c.c., prevederebbe una vera e propria custodia diretta, con una traditio, e conseguente obbligo di restituzione in costanza del soggiorno[83].
Il legislatore del 1978 avrebbe, però, in contrasto con i normali effetti del deposito in caso di danno, ed in deroga ai principi che regolano questo contratto, in via eccezionale limitato la responsabilità del depositario: saremmo in presenza di una responsabilità legale, definita anche d’occasione[84]. La stessa può configurarsi per il solo fatto che la sottrazione della cosa sia avvenuta nell’ambito dell’albergo anche per causa ignota, e perfino rispetto a cose delle quali si ignorava la presenza[85].
Secondo altro orientamento assumere la custodia non equivale, invece, all’”assunzione della custodia delle cose consegnate” di cui all’art. 1784, I comma, n.1, c.c., e ciò ancorché in entrambi i casi si presupponga un atto materiale di consegna, una traditio rei[86]. D’altronde, non bisogna dimenticare che la responsabilità è sempre limitata per le cose portate, ex art. 1783, III comma, c.c., mentre è sempre illimitata per quelle consegnate, ovverosia assunte in custodia in senso tecnico giuridico, ai sensi dell’art. 1784, I comma, c.c..
Sempre per quanto attiene alla responsabilità dell’albergatore per le cose portate in albergo, abbiamo visto in precedenza come questa, dopo la riforma del 1978, sia la stessa delle cose consegnate. Mentre, però, nel nuovo sistema è stata appesantita, come detto, la posizione dell’albergatore per le cose consegnate, al contrario il testo novellato ha alleggerito la responsabilità di quest’ultimo per quelle portate: l’esclusione dell’art. 1785, n.1, c.c., del richiamo alla “colpa grave del cliente” consente oggi all’albergatore di liberarsi dalla responsabilità provando la semplice colpa, anche lieve, dell’albergato o di uno dei soggetti che l’art. 1785 c.c. pone sul suo stesso piano[87]. Ciò è dipeso dal fatto che in molti Stati aderenti alla Convenzione di Parigi del 1962 non è conosciuto “l’istituto della graduazione della colpa” che ha portato alla riforma del codice civile del 1978.
È stato osservato in dottrina come, svincolando da qualsiasi graduazione la colpa dell’albergatore, il legislatore abbia di fatto ampliato l’area d’irresponsabilità di quest’ultimo, venendo a svuotare di contenuto la responsabilità stessa, tenendo in particolare conto che la sottrazione delle cose del cliente non avviene quasi mai senza una pur minima colpa di quest’ultimo[88]. Lo stesso confida nell’organizzazione alberghiera, e nella predisposizione di modalità di sorveglianza da parte dell’albergatore, affinché gli oggetti che detiene non siano sottratti. Rendere, invece, liberatoria la colpa lieve dell’albergatore non è rispondente a ragioni equitative, visto che fa ricadere nella sfera giuridico-patrimoniale del cliente le conseguenze pure di disattenzioni o di negligenze, obiettivamente scusabili: si pensi, ad esempio, all’aver lasciato, sopra una poltrona della hall dell’albergo, una borsa contenente oggetti di valore, oppure, sopra una scrivania della stanza, titoli al portatore (nota si veda Bonilini 140).
Il limite del risarcimento del danno previsto dall’art. 1783, III comma, c.c..
Per quanto attiene al limite del risarcimento del danno di cui all’art. 1783, III comma, c.c., le modifiche apportate al codice civile dalla L. 15 febbraio 1977, n. 35, hanno, secondo la giurisprudenza di legittimità, realizzato l’automatico adeguamento del limite di responsabilità all’importanza dell’albergo[89], assumendo come parametro elastico di riferimento il prezzo di locazione dell’alloggio per giornata[90]. È stato osservato in dottrina come la diversificazione del limite a seconda delle diverse categorie degli esercizi alberghieri garantisca una tendenziale proporzione tra il profitto ed il rischio dell’albergatore[91]. Quest’ultimo si trova, infatti, nella posizione ottimale per predisporre le misure tese a ridurre il numero degli incidenti, ed a limitare il costo sociale dei danni, operando una ripartizione dei rischi fra gli utenti della sua organizzazione alberghiera[92]. All’aggravamento in termini di prova del regime di responsabilità corrisponde la limitazione quantitativa della medesima, funzionale all’esigenza dell’impresa di determinare in via preventiva, e, quindi, assicurare, o, comunque, amministrare, il rischio affrontato[93].
Con l’espressione, assunta come parametro per la commisurazione dell’equivalente da risarcire, ovverosia “prezzo di locazione dell’alloggio per giornata” si deve intendere il corrispettivo per il godimento della camera[94]. Nel caso in cui il contratto d’albergo sia stato concluso per ottenere una camera alloggiata da più persone, e vi sia stata la sottrazione delle cose portate da un solo cliente, ad avviso della Cassazione il riferimento deve in questo caso essere fatto al prezzo globale della camera[95] e non già, come ritiene la dottrina, a quello pro quota, pro capite, riferito, cioè, al singolo cliente[96].
Sempre secondo la S.C. il parametro legale per il risarcimento limitato del danno dovrà corrispondere al prezzo globale della camera anche qualora in quest’ultimo siano ricompresi altri servizi, pattuiti dal cliente con l’albergatore sin dall’origine come imprescindibili condizioni dell’alloggio: si pensi, ad esempio, al trattamento di pensione completa, la quale comprende sia la prestazione dell’alloggio che quella del vitto[97]. Ciò in quanto è sull’esercizio di un’attività imprenditoriale che riposa la responsabilità limitata dell’albergatore, ed è necessario mantenere una costante proporzione proprio tra il limite della responsabilità ed il costo globale pagato dal cliente, comprensivo, quindi, di tutti i servizi espressamente pattuiti dall’origine, e ricompresi “in modo indistinto” nel prezzo giornaliero complessivo[98].
Il prezzo dell’alloggio comprende la maturazione degli interessi, e segue la svalutazione monetaria, consentendo una progressiva variazione dell’importo fissato[99]. Siamo in presenza di un debito di valore come è quello risarcitorio, e la stessa S.C. ha affermato come il legislatore della riforma abbia posto un limite alla liquidazione del danno subito dal cliente, ma non abbia assolutamente mutato la natura dell’obbligazione gravante sull’albergatore[100]. Il Giudice dovrà, quindi, rivalutare non solo il prezzo giornaliero dell’alloggio, ma anche il compendio risarcitorio tra la data dell’evento e quella della liquidazione[101].
In ogni caso la determinazione del quantum entro il limite massimo rientra nel potere discrezionale del Giudice di merito, il quale è libero di determinare la somma da liquidare secondo il suo prudente apprezzamento[102].
Se il prezzo dell’alloggio non è fissato, come, ad esempio, avviene nei c.d. inclusive tours, ove il costo risulta inglobato in una pluralità di prestazioni di natura anche non alberghiera, ed il turista paga ad un’agenzia di viaggi un importo che comprende globalmente tutte le prestazioni incluse nel viaggio, occorrerà riferirsi al prezzo praticato dagli alberghi della stessa categoria, ed ubicati nella medesima località[103].
Per gli esercizi assimilati agli alberghi ex art. 1786 c.c. il limite previsto dall’ultimo comma dell’art. 1783 c.c. deve essere, invece, commisurato al corrispettivo della “prestazione principale” fornita dall’imprenditore al cliente[104].
La colpa dell’albergatore ex art. 1785 bis.
Di norma la responsabilità dell’albergatore per le cose portate dal cliente è limitata, ex art. 1783, III comma, c.c.. Qualora, però, la sottrazione (o il deterioramento, o la distruzione) della cosa portata sia dovuta a colpa dell’albergatore, o degli altri soggetti a lui legati da un rapporto di parentela o di collaborazione la responsabilità diventa senza limiti ai sensi dell’art. 1785 bis[105]. Il carattere differenziale di questa responsabilità si coglie sul terreno dell’onere probatorio in quanto grava sul cliente l’onere di dimostrare la colpa dell’albergatore o dei suoi preposti[106].
Secondo la S.C. sussiste, ad esempio, la colpa dell’albergatore, ai sensi dell’art. 1785 bis c.c., qualora lo stesso limiti a determinati orari il servizio per la custodia delle cose consegnate[107]. Nel caso esaminato il servizio era indisponibile dalle ore 19:30 della sera alle ore 8:30 del mattino, ed un cliente aveva ritirato dal deposito una pelliccia di visone la sera, dovendo partire la mattina successiva molto presto. Durante la notte alcuni ladri si erano introdotti senza effrazioni nella camera, ed avevano sottratto il costoso capo d’abbigliamento.
Ad avviso della Cassazione, l’albergatore può porre dei limiti di orario al servizio di custodia, al fine di usufruire del corrispondente risparmio dei costi, ma all’incompletezza del servizio deve fare riscontro una particolare vigilanza sui locali dell’albergo, e, in particolare, sull’accesso alle camere, non potendo riversare i conseguenti rischi sulla clientela.
La colpa dell’albergatore, che giustifica la responsabilità per l’intero valore degli oggetti rubati, va individuata tenendo conto che nelle attività di impresa costituiscono colpa anche le carenze di carattere organizzativo che abbiano esposto i beni dei clienti ai rischi ai quali non sarebbero stati esposti qualora l’imprenditore avesse affrontato i costi necessari a fornire uno standard di sicurezza più elevato, in relazione ai rischi ordinariamente prevedibili ed evitabili, e tenuto anche conto dell’elevato standard della prestazione alberghiera offerta. La responsabilità poteva essere esclusa solo qualora l’albergatore avesse provato che la prevenzione dell’illecito verificatosi (furto) avrebbe richiesto l’adozione di cautele e di costi sproporzionati ed inesigibili, in relazione alla natura, al livello ed ai prezzi delle prestazioni alberghiere, nonché in relazione al rischio concreto del verificarsi di eventi del genere[108].
Da quasi quaranta anni la Cassazione afferma che la responsabilità dell’albergatore ben può scaturire dall’organizzazione dell’impresa per imprudente omissione di accorgimenti idonei a salvaguardare le cose portate in albergo dai clienti[109]. Ad avviso della S.C. è, ad esempio, responsabile il titolare di un negozio di parrucchiere (locale assimilato all’albergo ex art. 1786 c.c.) che non abbia invitato una cliente a depositare la pelliccia, poi sottratta da terzi, per metterla al riparo dal rischio di furti. Nel caso di specie la cliente aveva appeso la pelliccia ad un attaccapanni posto accanto all’ingresso del negozio che si apriva con la semplice pressione della mano, e alla portata, quindi, di chiunque si trovava a passare a passare sulla strada[110].
Ancora, la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto sussistere la colpa dell’albergatore ex art. 1785 bis nell’ipotesi in cui la camera dell’albergo, dalla quale erano stati sottratti preziosi, poteva essere aperta con una qualsiasi delle chiavi a disposizione dei clienti[111]. Sempre secondo la S.C. la responsabilità dell’albergatore si configura anche in relazione ai mezzi di chiusura della camera, nell’ipotesi di omessa custodia della chiave di una stanza che abbia consentito l’impossessamento della stessa da parte di un terzo. Nel caso di specie un ladro si era introdotto nella camera sottraendo le cose portate dal cliente: in tale ipotesi la sottrazione delle cose è la diretta conseguenza dell’omessa custodia della chiave utilizzata dal terzo[112].
La responsabilità del titolare di un ristorante per le cose portate, e per quelle consegnate in custodia dal cliente.
Le disposizioni relative al contratto d’albergo si applicano, oltre che agli albergatori, anche ad altri imprenditori. L’art. 1786 c.c., rubricato stabilimenti e locali assimilati agli alberghi, indica, a titoloesemplificativo: le case di cura[113], gli stabilimenti di pubblici spettacoli[114], gli stabilimenti balneari[115], le pensioni[116], le carrozze letto[117], nonché le trattorie, e simili. L’espressione “simili” è stata voluta dal legislatore, per evitare una pericolosa cristallizzazione di fronte al divenire delle abitudini e dei costumi, ed al sorgere di nuovi locali ed ambienti, per rispondere ad esigenze nuove[118].
Per quanto attiene specificamente alle trattorie ed ai ristoranti giova precisare come mentre il cliente di un albergo dispone di una camera (ove con una certa libertà può lasciare le “cose portate” di cui non ha bisogno per la sua esigenza quotidiana), di norma il cliente di un ristorante non dispone di un suo spazio esclusivo, potendo soltanto fruire dei locali comuni destinati al servizio di ristorazione, e di quelli accessori quali bagni, guardaroba, ect.; lo stesso di solito si ferma poi solo per il tempo necessario a consumare il pasto[119].
In tali condizioni la locuzione “cosa portata in albergo” deve necessariamente essere interpretata tenendo conto della struttura e dell’organizzazione di un ristorante, della diversa natura della prestazione offerta rispetto a quella di un albergo, e, soprattutto, del diverso modo in cui quest’ultima viene goduta dal cliente-creditore[120]. Viste le differenze strutturali che esistono tra le due imprese, nonché le diverse modalità di esecuzione, e, correlativamente, di godimento delle rispettive prestazioni, l’obbligo di sorveglianza imposto al ristoratore per la tutela delle cose portate dal cliente di certo è meno esteso, anche in senso spaziale, di quello analogo che incombe sull’albergatore[121].
Mentre, infatti, per l’albergatore sussiste la responsabilità ex recepto per “tutte” le cose portate in albergo dal cliente, ad avviso della Cassazione per il ristoratore la responsabilità per le cose non consegnate in custodia è “limitata” solo a quelle delle quali è opportuno che il cliente si liberi per il miglior godimento della prestazione, si pensi al cappotto, al cappello, all’ombrello, etc.[122]. Secondo la giurisprudenza di merito deve essere assimilato al cappotto il borsone sportivo che ha il cliente di un villaggio turistico nel momento in cui consuma il pasto[123]. Il ristoratore risponderà, quindi, come cosa portata in albergo, per il furto di un montone che un cliente abbia appeso ad un attaccapanni, e ciò ancorché quest’ultimo sia ubicato in una sala diversa da quella nella quale il cliente abbia pranzato. In tale ipotesi, secondo la S.C., si deve escludere che lo stesso abbia concorso alla produzione del danno (concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227 c.c.), non essendo il cliente tenuto, nel riporre il proprio soprabito, ad adottare un comportamento che si estenda fino agli estremi limiti della diligenza[124].
Il ristoratore non risponderà, invece, della sottrazione o della perdita di tutte le altre cose che il cliente porta con sé, si pensi, ad esempio, ad un accendino, e che non costituiscono intralcio alla consumazione del pasto: queste restano sotto la diretta sorveglianza del cliente[125], in maniera analoga a quanto avviene per le cose che il passeggero porta con sé dopo aver concluso un contratto di trasporto di persone (art. 1681 c.c.)[126].
Ad avviso della dottrina l’assimilazione di cui all’art. 1786 c.c. riguarda pure le carrozze-ristorante: queste sono delle vere e proprie trattorie viaggianti su rotaie, e la perdita di cose eventualmente portate dal cliente fa scattare l’obbligazione risarcitoria a carico del gestore[127].
Nella categoria “cliente” di un ristorante non rientrano soltanto i soggetti che abbiano stipulato un contratto con il gestore, ma anche coloro in favore dei quali il ristoratore si è impegnato ad eseguire la propria prestazione[128]. Ciò significa che la nozione di cliente è strettamente connessa alla sussistenza dell’obbligazione del ristoratore di fornire beni e servizi, indipendentemente dal fatto che il soggetto o i soggetti beneficiari della prestazione coincidano con il soggetto, o con i soggetti, obbligati alla controprestazione (il plurale si riferisce all’ipotesi in cui il conto non venga pagato da una sola persona).
Secondo la S.C. si deve, quindi, annoverare tra i clienti di un ristorante anche l’ospite del contraente, atteso che l’ospite viene a trovarsi, come visto nel paragrafo n. 1, nella posizione giuridica di terzo beneficiario della prestazione in base a quanto disposto dall’art. 1411 c.c., norma che non pone alcun limite alla qualità ed al contenuto della prestazione da farsi al terzo[129]. Di conseguenza il ristoratore sarà responsabile per il furto di una pelliccia appesa ad un attaccapanni da un’invitata ad un banchetto nuziale: in questo caso la responsabilità è sicuramente ipotizzabile visto che si tratta di una persona che ha diritto alla prestazione in base ad un contratto stipulato da altri.
Ad avviso della Cassazione lo stesso principio non può, invece, essere affermato in riferimento ai “visitatori”, o agli “accompagnatori” del cliente o dell’ospite del ristorante, che non sono beneficiari del contratto: questi soggetti restano, infatti, completamente estranei al rapporto contrattuale ed ai suoi effetti[130]. In caso di sottrazione di una cosa portata nel ristorante dal visitatore lo stesso potrà, secondo la dottrina, agire in giudizio ex artt. 2043 e 2049 c.c., assumendosi l’onere della prova del rapporto di causalità, e della colpa del ristoratore o dei suoi commessi[131].
Per quanto, invece, attiene alle cose “consegnate” al ristoratore dal cliente dubbi interpretativi sono sorti in giurisprudenza in riferimento alla qualificazione di “consegna in custodia”, rilevante per l’individuazione di una responsabilità illimitata, anziché limitata come avviene per le cose portate[132].
Secondo un primo orientamento la semplice consegna, ad esempio di una pelliccia, nelle mani di un cameriere non può equivalere senz’altro a consegna in custodia, potendo pure preludere ad una prestazione di mera cortesia[133]. Seguendo tale pensiero per la consegna in custodia sarebbe necessario un accordo univoco, nel senso che insieme alla consegna della pelliccia dovrebbe essere indicato “lo scopo specifico della custodia”, non potendosi avere un accordo in tal senso con la sola dazione della res da parte del cliente, e con la presa in consegna della stessa da parte del ristoratore[134]. In base a questo primo orientamento la consegna di un capo di abbigliamento al cameriere sarebbe sotto questo profilo un atto equivoco, potendo anche tradursi nella semplice richiesta di prestazione di cortesia, usuale in riferimento a chi frequenta un ristorante, con la conseguenza che in tale ipotesi la pelliccia rientrerebbe nella mera sfera di vigilanza del ristoratore, e, quindi, nell’ambito di una fattispecie di responsabilità limitata, come cosa portata con sé dal cliente, e non già di responsabilità illimitata[135]. Così operando si declassa la consegna all’ausiliario a semplice introduzione della cosa nel locale.
Ad avviso di un secondo pensiero la consegna deve avvenire in un contesto, e con modalità tali, che ne dimostrino inequivocabilmente la finalità di custodia, ma a questo fine resta irrilevante la mancata estrinsecazione di detta finalità in un’espressa dichiarazione negoziale[136]. La consegna di una pelliccia al cameriere non deve, infatti, essere accompagnata da modalità formali, o da raccomandazioni non richieste dalla legge, essendo fatta ad un soggetto che per la sua qualificazione non può non dare affidamento di accortezza e di prudenza nel custodire il capo[137]. È stato osservato in dottrina come tra cliente e ristoratore corre un rapporto fiduciario che mal tollera una procedura formale di deposito, fermo restando che l’ausilio del cameriere determina un’apparentia juris tale da ingenerare nel cliente il legittimo affidamento sull’effettiva custodia del proprio capo di vestiario[138].
In ogni caso non bisogna dimenticare che, secondo costante giurisprudenza di legittimità, l’accertamento del Giudice di merito in ordine all’effettiva volontà del cliente di “consegnare in custodia” le cose portate in albergo è incensurabile in Cassazione se immune da vizi logici e giuridici[139]. La discrezionale valutazione circa la consegna o meno della cosa in custodia diretta è, infatti, attribuita al Giudice di merito[140].
Avv. Bianca Maria Petti