L’articolo 150 comma 1 del decreto legge 19 marzo 2020 n. 34 (Decreto Rilancio) ha inserito nell’articolo 10 del Tuir (Dpr 917/1986) il comma 2-bis, secondo cui le somme indebitamente erogate al lavoratore o al pensionato, se assoggettate a ritenuta, devono essere restituite al sostituto d’imposta al netto della ritenuta operata al momento dell’erogazione e non costituiscono oneri deducibili. Spetterà al sostituto un credito di imposta pari al 30% delle somme ricevute, utilizzabile senza limite di importo in compensazione in base all’articolo 17 del Dlgs 241/1997.
Già la Suprema Corte con la sentenza (n. 19735 del 2018) e con numerose pronunce conformi successive , ha infatti ritenuto che in caso di riforma, totale o parziale, della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme in favore del lavoratore, il datore di lavoro ha diritto di ripetere solo quanto il lavoratore abbia effettivamente percepito e non può pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali e previdenziali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente, atteso che il caso del venir meno con effetto ex tunc dell’obbligo fiscale a seguito della riforma della sentenza da cui esso è sorto ricade certamente nel raggio di azione dell’art. 38, comma 1, del D.P.R. n. 602 del 1973, secondo cui il diritto al rimborso fiscale nei confronti dell’amministrazione finanziaria spetta in via principale a colui che ha eseguito il versamento, non solo nelle ipotesi di errore materiale e duplicazione, ma anche in quelle di inesistenza totale o parziale dell’obbligo.
La Corte ha dunque ritenuto che l’obbligo fiscale sorto da una sentenza (immediatamente esecutiva) poi riformata, secondo una fisiologica dinamica processuale, venuto meno con effetto ex tunc per effetto della parziale riforma in appello, deve correttamente ritenersi versarsi nell’ipotesi di inesistenza dell’obbligo di versamento o di errore, ipotizzata dal citato art. 38.
Ed infatti, l’azione di restituzione e riduzione in pristino invocata dal datore di lavoro, proposta a seguito della cassazione della sentenza contenente il titolo del pagamento, si collega ad un’esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale anteriore a detta sentenza e, dunque, di prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà dei suoi effetti, e in sostanza, di un pagamento non dovuto.
Non può dunque modificarsi l’evidente principio, peraltro aderente alla peculiarità del rapporto di lavoro subordinato, per cui il solvens non può ripetere dall’accipiens, in ogni caso, più di quanto quest’ultimo abbia effettivamente percepito, e cioè quanto allo stesso versato (in tal senso, fra le altre, Cons. Stato sez. 3 n. 3984/11), sia pure in esecuzione di una sentenza provvisoriamente esecutiva.
Prima del nominato provvedimento normativo del governo, l’Agenzia delle Entrate con le risoluzioni n. 71/E del 29 febbraio 2008 e n. 110 del 29 maggio 2005, in base alla previsione dell’articolo 10, comma 1, lettera d-bis) del Tuir, aveva previsto la possibilità di dedurre dal reddito complessivo «[…] le somme restituite al soggetto erogatore, se hanno concorso a formare il reddito in anni precedenti».
Secondo l’Agenzia delle Entrate, l’introduzione di questo articolo si era resa necessaria proprio in quanto il sistema dei rapporti tra erario, sostituto e sostituito, comportava che il recupero, a carico del contribuente, delle somme a suo tempo a lui erogate avvenisse al lordo delle imposte che l’ente erogatore aveva versato all’erario in qualità di sostituto.
Quindi, l’articolo 10 avrebbe rappresentato la regola generale a cui attenersi, poiché il contribuente, portando in deduzione dal proprio reddito l’onere rimborsato al datore di lavoro, avrebbe compensato le imposte pagate e quindi, di fatto, avrebbe restituito il solo netto ricevuto.
Al contrario, la giurisprudenza civile (ad esempio, Cassazione, sezione lavoro, sentenze 2 febbraio 2012, n. 1464 e 25 luglio 2018, n. 19735), quella amministrativa (ad esempio, Tar Toscana, sezione I, sentenza 22 giugno 2017, n. 858) e quella contabile (ad esempio, Corte dei conti, sezione regionale Umbria, delibera n. 120/2015) escludono la possibilità, affermando che nei casi del recupero delle somme indebitamente erogate al dipendente è ammissibile, come sopra precisato, il diritto del datore di lavoro alla ripetizione di quanto il dipendente abbia effettivamente percepito (somma netta) e non anche le ritenute fiscali operate quale sostituto d’imposta e mai entrate nella sfera patrimoniale del lavoratore.
Diversamente, si avrebbe un aggravio ingiustificato per il lavoratore medesimo costretto a rifondere più di quanto concretamente ricevuto.
In concreto, perciò, il comma 1 dell’articolo 150 del Decreto Rilancio ha positivizzato questo orientamento giurisprudenziale.
Il datore di lavoro, in ogni caso, può rivolgersi direttamente all’amministrazione finanziaria per la restituzione delle ritenute erroneamente pagate, secondo le forme e i termini dell’articolo 38 del Dpr 602/1973; inoltre, come previsto dal comma 2 dell’articolo 150, ai sostituti d’imposta ai quali siano restituite le somme al netto delle ritenute operate e versate, spetta un credito d’imposta pari al 30% delle somme ricevute, utilizzabile senza limite di importo in compensazione.
Le nuove norme si applicano, come previsto dal comma 3 dell’articolo 150, alle somme restituite dal 1° gennaio 2020; sono fatti salvi i rapporti già definiti alla data del 19 marzo 2020.