E’ divenuta ormai quasi una prassi nella redazione degli atti introduttivi richiedere una liquidazione del danno in via equitativa, rimettere cioè al Giudice la decisione sulla quantificazione del pregiudizio subito dal proprio Assistito, nei limiti della eventuale competenza per valore.
Nella recente pronuncia del Tribunale di Forlì n. 810/2020, il Giudice ha rigettato in toto anche la domanda attorea di ristoro per disagi assertivamente subiti, in quanto “non v’è alcuna prova del danno in punto di an inoltre la quantificazione è assolutamente generica e sganciata da qualsiasi parametro oggettivo.”
Dalla ricostruzione giurisprudenziale operata sull’argomento, l’art. 1226 c.c. presuppone comunque la prova dei minimi elementi costitutivi della domanda, oltre alla dimostrazione di una condotta contra ius della controparte.
In particolare, secondo il giudicante, la prova non può avvenire attraverso la semplicistica indicazione di generici importi o attraverso il mero rinvio alla valutazione equitativa del Giudice.
In tal senso, vi è costante giurisprudenza: “L’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 cod. civ., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 cod. proc. civ., dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare; non è possibile, invece, in tal modo surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova de danno nella sua esistenza. ..” (Cassaz. Civ., Sez. III, 30/04/2010, n. 10607).
Dello stesso tenore anche numerose pronunce della Suprema Corte in merito al danno non patrimoniale.
Le sentenze della Cassazione, Cass. Sezioni Unite, 24 marzo 2006, n. 6572, e Cass. Sez. III, 12 giugno 2006, n. 13546, si sono fatte carico di dare una definizione nonché una linea guida sulla materia.
La prima soprattutto, si preoccupa non tanto e non solo di darne una definizione, ma di delinearne il contenuto e di chiarire l’aspetto probatorio che diventa essenziale per il danneggiato, su cui grava il relativo onere.
Stabiliscono infatti le Sezioni Unite che il danno non patrimoniale si fonda su una natura oggettivamente accertabile del pregiudizio per la quale, perché possa procedersi a liquidazione equitativa, non basta che vi sia difficoltà obiettiva di prova del “preciso ammontare”, ma è indispensabile che vi sia la prova della esistenza del danno nonché l’indicazione degli elementi su cui fondare la stessa valutazione equitativa.
A tale proposito quindi, sempre la sentenza Cass. SS.UU. Civili, n. 6575 del 24 marzo 2006, subordina la pronuncia di risarcibilità del danno alla puntuale e completa allegazione probatoria del pregiudizio che l’istante assume di aver subito.
Con tale conclusione le Sezioni Unite mostrano di confermare quindi l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale è onere dell’attore provare, ai sensi dell’art. 2697 cod. civ., il danno patito ed il relativo nesso di causalità, elementi che rappresentano il presupposto indispensabile per una valutazione equitativa del pregiudizio ad opera del giudice, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ. (Cass. Civ. 10361/2004; Cass. Civ. 16792/2003; Cass. Civ. 8904/2003; Cass. Civ. 2561/1999; Cass. Civ. 7905/1998).
Tale orientamento appare ormai consolidato in ambito giurisprudenziale in quanto, sulla stessa scia anche l’ulteriore sentenza Cass. SS.UU. Civili n. 26972/2008 ma anche Cass. Civile sez. 3 sentenze n. 339 del 13/01/2016 e n. 15240 del 03/07/2014. La Suprema Corte ha infatti escluso che il danno possa sussistere in re ipsa, prevedendo invece che esso debba essere rigorosamente allegato e provato.